…to preach and to…. tumble down…

ImmagineI recently heard someone talking on TV and saying “predicare bene e ruzzolare male”. This spoonerism made me laugh a lot. The fact is that, to say “not to practise what one preaches”, the verbs we use are “predicare” (to preach) and “razzolare” (to scratch: it is literally what chickens do, scratching in the hen house, looking for food). The correct saying is “predicare bene e razzolare male”. The verb “ruzzolare”, instead, means “to tumble down”. The noun “ruzzolone” is a heavy fall.

What a difference a vowel makes! 🙂

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…tu e lei…

Nel dialogo italiano esistono almeno due registri linguistici. Esiste il tu, informale, ed esiste la forma “educata” del lei. Una delle questioni più dibattute tra gli studenti stranieri – specie da chi parla lingue in cui questa distinzione non c’è – è quando usare l’uno e quando usare l’altro.

Chi studia una lingua è affamato di regole per destreggiarsi, ma è sempre difficile, da italiani, offrire indicazioni precise su quando è il momento di dare del tu e quando è il momento di dare del lei.

Si può tagliare la testa al toro affermando che il tu si usa in tutti i contesti informali: tra amici, tra familiari, tra bambini, con i bambini – oppure tra estranei, per lo più coetanei, fra i quali può nascere subito una certa confidenza. Il lei, invece, è comune tra adulti ultraquarantenni, nel rivolgersi ad una persona molto più grande d’età (tipicamente anziani), o in contesti formali in cui non è opportuno accorciare le distanze (cameriere e cliente, per esempio).

È difficile – diciamo impossibile – che due interlocutori sotto i trent’anni si diano mai del lei, mentre è più facile che tra adulti più grandi, meno inclini ad entrare in confidenza, si eviti in prima istanza il tu, per poi magari concederselo una volta che il ghiaccio si è sciolto.

In generale, superata una certa età (diciamo 45-50 anni), la regola del lei, tra estranei, non viene mai violata, neanche tra coetanei.  Al di sotto di quel limite, è invece probabile che due persone della stessa età, pur non conoscendosi, scivolino dal lei al tu di comune accordo.  A volte la richiesta è esplicita: possiamo darci del tu? A volte, invece, una persona stizzita di fronte ad un tu non concordato, può reagire in malo modo, pretendendo che si mantengano le distanze: chi le ha dato questa confidenza? Mi dia del lei!

In ogni caso di tratta di una “regola del pollice”, e tutto dipende dal contesto.

L’unica cosa che posso affermare con certezza è che, dietro la regola del lei, si nasconde molta ipocrisia. Non si vedrà mai un italiano rivolgersi ad un extracomunitario o a un vu cumpra’ dandogli del lei. La forma che si usa per rivolgersi ad animali, a bambini e – ahimè – a chi si ritiene in basso nella scala sociale è proprio il tu.

In alcune zone del sud è ancora vivo e vegeto il rispettoso voi. Ha un vago sapore ottocentesco e viene adoperato quasi esclusivamente per rivolgersi agli anziani.

Qualche giorno fa, sul Corriere della Sera, è apparso un articolo a firma Vittorio Messori, uno scrittore cattolico. Non credo si offenderà se lo definisco uno scrittore cattolico alquanto bigotto. Il suo pezzo – un compendio di scemenze fuori dal comune – annuncia di voler essere una “riflessione (provocatoria) sul dilagare del tu” e quel “provocatoria”, piazzato tra parentesi in via cautelativa, fa già sorridere.

Si inizia con uno sfogo: difficile per un cattolico di destra vivere il sessantotto, tempo animato da uno spirito “rosso” di rivalsa, teso ad abbattere proprio l’ipocrisia borghese in cui il giornalista-scrittore sguazzava (e sguazza) così bene. Addirittura, sprangato dai ragazzi in eskimo che lo purgavano come sovversivo, obbligandolo a bere olio di ricino e forzandolo ad entrare in confidenza,  gli sembrava d’aver fatto un salto a trent’anni prima, quando Achille Starace, gerarca fascista, aderendo a quel “cupolone di stupidità” (cit. Andrea Camilleri) che è stata la moda mussoliniana, emanava le sue disposizioni di abolizione del lei in favore del voi[1].

Si continua citando l’influenza (che a questo punto è da ritenersi per lui positiva) che i professori di ginnasio hanno esercitato sullo studentello, quando il tu lo riservavano agli immigrati meridionali[2]. Gli esempi poi citati per decretare che il lei merita ancora rispetto sono niente popò di meno che suo padre, militare nel Regio Esercito[3], e la Madonna. Ebbene sì: se la Vergine, nelle sue 18 apparizioni (descritte come cose certe), ha usato il voi per rivolgersi a pastorelli e pezzenti francesi, un motivo ci sarà, no?

Immancabile, da parte di un bigotto borghese cattolico, la stoccata alla Rivoluzione francese, all’egualitarismo e allo stalinismo. Solo un timido accenno al nazionalsocialismo – così, tanto per far finta d’essere politically correct.

Il vero fuoco d’artificio, tuttavia, è nel trafiletto finale messoriano. Un vero capolavoro. Una grossa idiozia che esplode nel cielo, aprendosi in una rosa di filamenti luminosi: ogni totalitarismo – a detta del fine analista della società contemporanea – “impone la fraternità a colpi di tu“. Difendere il lei è quindi un “forse piccolo ma significativo impegno per la libertà”.

Secondo Messori, cioè, la nostra società sarebbe in pericolo dal serpeggiare di una familiarizzazione spinta; come dire: diamoci del lei per non finire in una dittatura.

Di fronte a parole del genere si può solo allargare le braccia, farsele ricadere pesantemente sui fianchi e mettersi a ridere. Dispiace solo che “giornalisti” come Messori trovino spazio su dei quotidiani nazionali, che avallano, con la loro autorità, dei mucchi di scempiaggini tali.

La verità è che in italiano non esiste alcun “dilagare del tu”. In italiano esistono due registri specifici, ed è impossibile fare a meno di uno in favore dell’altro. Nessuno forza nessun’altro ad entrare in confidenza, nella vita di tutti i giorni. Sfortunatamente, però, l’italiano non è una lingua come l’inglese, in cui la soluzione intelligente dello you ha un sapore di “confidenza intermedia” (né di familiarizzazione sfrenata del tu, né di formalità ingessata del lei), e non può neanche diventarlo col tempo.

In italiano si può essere rispettosi pur adoperando il tu, così come vestire elegantemente la propria maleducazione con l’abito sgargiante del lei. Come in tutti i contesti della vita, bisogna tenere a mente la distinzione tra forma e sostanza:


[1] A conferma della dilagante stupidità di quel periodo, la rivista “Lei”, rivolta ad un pubblico femminile, dovette ribattezzarsi “Annabella”. Fu inoltre inaugurata una “mostra Anti-lei”.

[2] Quegli stessi “terroni” a cui non si fittavano case.

[3] Ovvero in un’epoca in cui persino ai genitori, o tra marito e moglie, si dava del voi.

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…papariarsi e tambasiare…

Papariarsi e tambasiare sono due verbi che non compaiono in nessun dizionario italiano. Appartengono, infatti, il primo al dialetto napoletano, il secondo a quello siciliano. Che cosa significhi papariarsi lo dice bene Eduardo de Filippo, famoso drammaturgo dialettale napoletano, il quale, in una sua splendida commedia, Le voci di dentro, lo descrive come quell’attività oziosa, tipicamente mattutina, costituita da operazioni che, un po’ per pigrizia, un po’ per mancanza di tempo, si è sempre rimandato: aggiustare un quadro, spostare un mobile, spolverare un tappeto: “Mi piace quando la mattina mi sveglio, ho un po’ di tempo, e mi posso papariare per la casa.” (http://www.youtube.com/watch?v=zBuEAXjph1E&t=4m50s)
Il verbo tambasiare, invece, nelle parole di Andrea Camilleri, acclamato scrittore siciliano, racchiude una pigrizia, un’apatia, un lassismo, una svogliatezza ancora maggiori; vuol dire alzarsi al mattino e, con la notte ancora attaccata addosso, gironzolare per casa inoperosi, trasandati, sfaccendati, annoiati, pigri:  “significa svegliarsi la mattina, non lavarsi, rimanere in ciavatte [ciabatte] […], dopodiché girettare per casa, facendo cose fondamentali come equilibrare esattamente un quadro alla parte, oppure guardare una cartolina, non leggerla e rimetterla a posto. Questo è tambasiare.” http://www.youtube.com/watch?v=sOMLIa9ajxQ&t=7m21s

Sono curioso di sapere se nella vostra lingua esiste qualcosa di simile! 🙂

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io ando, tu andi, egli anda…

When I was very little, my mom used to make me sit on the square table in our living room and taught me Italian verbs. Today she tells me that, faced with the verb andare (to go), I came up with my pure and simple io ando, tu andi, egli anda, noi andiamo, voi andate, essi andano.

I was wrong, of course, but in my defense I can say that I was a kid, not yet corrupted by the vagaries of adulthood 🙂

The fact is that andare, as well as dare (to give) and stare (to stay), is an irregular verb of the 1st conjugation (-are). Its etymology is quite uncertain, but it certainly borrows from the Latin verb vadĕre.

The correct conjugation of the Italian verb andare is:

io vado (I go)
tu vai (you go)
egli va (he goes)
noi andiamo (we go)
voi andate (you go)
essi vanno (they go)

The presence, in this verb, of two etymological roots, and- and vad-, constitutes a suppletivismo primario — just a high-flown definition used by grammarians.

It’s interesting to note that, in the Tuscan regional language, as well as in old novels of the nineteenth century, you can find vo as the first person singular: Io vo al mare as to mean Io vado al mare. Perpetua, a character described by Alessandro Manzoni in his novel I promessi sposi, says: Aspettate, aspettate, vo e torno. That is: vado e torno.

Please be careful what kind of resources you refer to, in order to learn the Italian language. I just came across a website (http://www.byki.com/lists/Italian/Present-verb-tense.html) that offers some wrong examples of the Italian present verb tense, and just…guess what? io ando, lui anda, loro andano.

Arrggh!

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…una bella gatta da pelare…

Prendo spunto da un post di Melissa, in cui è venuto fuori un modo di dire che, stranamente, esiste sia in inglese che in italiano, anche se in forma diversa:  more than one way to skin a cat / avere una bella gatta da pelare.

L’espressione italiana è un po’ più colorita di quella inglese e non so proprio perché si dica gatta (al femminile) e non gatto (al maschile). In italiano, in frasi di questo tipo, l’aggettivo bello non ha valore estetico, ma si aggiunge per sottolineare l’entità di un problema: è una bella rogna! (una grande rogna), è un bel dilemma! (un grande dilemma).

Alcune interpretazioni di questo detto rimandano a quei tempi di carestia in cui la fame spingeva ad arrangiarsi; non si andava troppo per il sottile ed anche i gatti finivano in casseruola. Spellarli doveva rivelarsi piuttosto arduo.

Altre, invece, alludono semplicemente al fatto che cimentarsi nella “pelatura” di un gatto non deve essere la cosa più semplice del mondo, vista la scarsa amichevolezza dell’animale; e probabilmente alle femmine vengono attribuite una ritrosia e un’aggressività maggiori (le donne… si sa!).

Il fatto che questo detto esista in entrambe le lingue, però, mi fa pensare che la prima interpretazione sia la più plausibile. La povertà, d’altronde, ha lo stesso sapore in tutti gli idiomi del mondo. Povere micette 😉

Altri detti “a base di gatto” si possono trovare sul Dizionario dei modi di dire della Hoepli:

http://dizionari.corriere.it/dizionario-modi-di-dire/G/gatto.shtml

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metasemantica

Il lonfo è un animale strano: non vaterca né gluisce, e molto raramente barigatta. Fermi! Se state correndo a prendere il dizionario, devo informarvi che in italiano non esiste alcun verbo vatercare, gluire o barigattare. Il verso di cui sopra appartiene, difatti, ad un sonetto scritto da Fosco Maraini, un poeta (e alpinista e viaggiatore e fotografo) italiano, nato nel 1912. Lo potete trovare, insieme ad altri poemetti del genere “metasemantico”, nella raccolta Gnosi delle fànfole, pubblicata nel 1978.
La metasemantica, così battezzata da Maraini, è una tecnica letteraria in cui parole senza senso vengono usate con lo scopo preciso di trasmettere certe emozioni. Su qualcosa di molto simile è basato Jabberwocky di Lewis Carroll, presente nel suo meraviglioso Through the Looking-Glass, and What Alice Found There. Come si può vedere nell’interpretazione de Il lonfo di Gigi Proietti, benché le parole che giungono all’orecchio non abbiano alcun significato preciso, i suoni e l’espressività dell’attore invitano chi ascolta a farsi un’idea precisa di questo animale(?): silenzioso, sfuggevole, viscido, pigro, ritroso, malevolo, inafferrabile, imbroglione e dispettoso, irritante e astuto, che sguazza in qualche luogo infimo e oscuro della terra, e si fa continuamente beffa di noi.

Mi raccomando, la prossima volta che vedete un lonfo, affarferrategli un gniffo! 🙂

Il lonfo non vaterca né gluisce
e molto raramente barigatta,
ma quando soffia il bego a bisce bisce
sdilenca un poco e gnagio s’archipatta.
È frusco il lonfo! È pieno di lupigna
arrafferia malversa e sofolenta!
Se cionfi ti sbiduglia e t’arrupigna
se lugri ti botalla e ti criventa.
Eppure il vecchio lonfo ammargelluto
che bete e zugghia e fonca nei trombazzi
fa lègica busìa, fa gisbuto;
e quasi quasi in segno di smerdazzi
gli affarferesti un gniffo. Ma lui zuto
t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.

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Republic Day

Oggi, 2 giugno, in Italia ricorre la Festa della Repubblica. Sessantacinque anni fa, gli italiani, mediante un referendum istituzionale, decisero di non voler essere più sudditi e di cominciare ad essere repubblicani. In realtà, la repubblica vinse d’un soffio, con poco più del 54% dei voti. Gli italiani, come sempre, erano spaccati a metà. Al sud la monarchia rimaneva di gran lunga la preferita, mentre la percentuale si invertiva al nord, a favore della repubblica. Sta di fatto che l’Italia, dopo un ventennio fascista che l’aveva prostrata, decideva di assumere la forma istituzionale che conserva ancora oggi e che, si spera (mala tempora currunt), terrà ancora a lungo.

Oggi a Roma c’è un preludio d’estate, ma il caldo è stato stemperato da un timido acquazzone. Ci sono motociclette e volanti di Polizia e Carabinieri che sfrecciano a sirene spiegate, scorrazzando su e giù per la città, scortando limousine dai vetri oscurati, fischiando e agitando la paletta a chiunque intralci loro il cammino.

Ed io che brontolo e mi chiedo se quei pezzi grossi dietro i vetri antiproiettile meritino davvero tanto spreco di denaro pubblico. E sì, noi italiani siamo così: ci lamentiamo sempre! 🙂

L’Enel, la principale società italiana fornitrice di energia elettrica, ha prodotto uno spot pubblicitario, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Lo voglio riproporre qui, perché la voce fuori campo parla lentamente, scandisce bene le parole, ed ascoltarla può essere un buon esercizio per chi vuole imparare la pronuncia italiana corretta.

Tutto sommato voglio bene al mio paese e faccio i miei auguri a questa Repubblica malconcia, che soffre e si arrabatta, da tanti anni, per essere un paese normale.


È vero, l’Italia è da sempre un paese particolare; ed è su difetti e piccole manie che amiamo soffermarci, quando parliamo del nostro paese. È semplice, lo fanno tutti!
Per una volta, una soltanto, fate qualcosa di diverso: provate a parlare di quell’Italia che sembra essere invisibile, ma che esiste! Quell’Italia creativa, quella appassionata, quella intraprendente, quella capace di arrivare lontano! Per una volta, non parlate di debolezza, parlate di energia.
Sarà bello scoprire che parlerete di voi.

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Itanglish

We Italians, as you certainly know, are creative people. What you may not know is that our creativity goes so far as to invent new words in other languages.
Believe it or not, the following sentence makes perfect sense in Italian:

«Ieri mattina ho fatto footing, poi ho preso il pullman, portando con me un pullover. Ci siamo fermati ad un autogrill, ho mangiato un toast, ho fatto una partita a flipper, e quando l’autista ha suonato il clacson, siamo risaliti sull’autobus e ripartiti. Se mi avesse lasciato lì, sarei tornato a casa in autostop. La sera sono stato al luna park e ho preso un drink con un amico. Poi sono tornato a casa, ho messo la macchina nel box, mi sono fatto una doccia e ho asciugato i capelli col phon, mi sono seduto davanti al televisore e ho fatto zapping».

Although this mini story seems to be peppered with English words, it is very likely that an English speaker will have a hard time understanding it. The words in boldface above are indeed called false anglicisms, that is English-like words, in terms of spelling and phonetics, but not belonging at all to the English language (at least, not with that meaning).

What we Italians (and we Italians only) call footing is actually jogging; a smoking is a tuxedo; a montgomery is a duffel coat. Be warned: if you go into a bar and ask for scotch, expect that the bartender will offer you transparent adhesive tape. The term scotch, indeed, hardly means whisky in Italian.

Words such as pullman (bus) and golf (sweater) have even their own diminutive: pulmino (little bus) and golfino (small sweater).

False anglicisms are a strange phenomenon but I believe something similar happens to other languages too (ask, in Italy, a latte and you’ll get a pearly-white glass of milk; the name used in Italy is caffellatte/caffelatte, or latte macchiato).

Sometimes English words enter surreptitiously in Italian, shedding their Anglo-Saxon skin, and mingling in the crowd. It’s the case of bovindo, a terrible Italianization of bow-window; or water (toilet), pronounced as if it were written vater (v uttered as the German w, a “voiced labiodental fricative”).

Please let me know if you find any false italianism in your language 😉

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Doubble troubble

A friend of mine, from Greece, has some difficulty in pronouncing the double consonants.
I often mock her for her faro (lighthouse), instead of farro (spelt), or—still worse—ano (anus) , instead of anno (year).
Imagine an innoncent curiosity as Quanti anni hai? (How old are you?—literally: How many years do you have?) transformed into a bizarre anatomical question: Quanti ani hai? (How many anuses do you have?—whose answer, however, should be a stock one).
At times, aware of her spelling weakness, she tends to use a double consonant even when it would take only one (she once asked me whether arancia has one r or two).
I admit it’s not her fault, though; the writing and pronunciation of Italian are actually inconsistent.
There are Italian words whose meaning changes considerably, by adding a further consonant.
Some examples: pala/palla (shovel/ball), casa/cassa (house/crate), sera/serra (evening/greenhouse), sete/sette (thirst/seven), caro/carro (dear/wagon), nono/nonno (ninth/granfather), note/notte (notes/night).
Moreover, a word like azione (or any other word ending with the same letters: nazione, esaltazione, costituzione, moltiplicazione, etc.) is pronounced as if it were written with two z’s: azzione. That’s why we have to be indulgent toward those who commit certain spelling errors in Italian. They are often due, in fact, to a more than legitimate mental process, intended to align pronunciation and writing.
Even eminent people like Alessandro Manzoni, a father of the language, made blunders such as dificoltà (instead of difficoltà) or dificilmente (instead of difficilmente).
Still, if Gaetano Donizetti put his pantoffole (instead of pantofole), before going to bed, so can we, huh? 🙂

Quando ci sono le doppie
le lettere si scrivono a coppie.
Due LL sulle tapparelle,
con due PP hai una zappa per zappare,
con due FF una stoffa da indossare,
con due MM una mamma da abbracciare.
Ma la pace ha una C sola che peccato,
per questo è così difficile da conservare.
(L. Taffarel)

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Tutti frutt…a

Today I was in a bookstore, thumbing through Viva la grammatica!, a fine book on Italian grammar published recently.
I focused on the explanation of the plural. It’s strange how, sometimes, we do not pay enough attention to the particularities of our own language.
Italian comes from Latin and, although in most cases the Latin neuter gender has merged into the Italian masculine gender, many words have retained the plural ending in “-a”, instead of (or in addition to) “-i”.
Example: “ciglio”/”cigli”/”ciglia” ; “braccio”/”bracci”/”braccia” ; “uovo”/”uova” ; “dito”/”diti”/”dita”, etc..
Generally, the plural ending in “-i” is countable, while the one ending in “-a” is a collective noun.
The same goes for “frutto,” whose plural is either “frutti” or “frutta”.
The plural “frutti” is countable, then used if you want to specify a finite number of individual fruits; “frutta” is instead uncountable. Similarly to what happens in English with “fruit”. Probably the uncountable nature of “fruit” itself is just an influence of Romance languages like Italian.
About genders and fruit, it is interesting to note that in Italian the name of a fruit tree is always expressed with the masculine gender (“il melo”, “il pero”, “il banano”), while the name of the fruit itself is usually indicated by the feminine gender (“la mela”, “la pera”, “la banana”). It’s also true that other fruits have a male name: “il  mandarino”, “l’ananas”, “il fico”.
Many Italians use the term “arancio” to refer to either the orange tree or the fruit itself. Obviously this is wrong: “arancio”, masculine in gender, only indicates the tree (“what a beautiful orange tree!” = “che bell’arancio!”); the fruit, feminine in gender, is called “arancia” (“what a beautiful orange!” = “che bell’arancia!”).
By the way, unlike what many believe—including Little Richard, Pat Boone and Elvis Presley—the expression “Tutti Frutti” does not mean anything in Italian.
English speakers are led to believe that it means “all fruits”, because “tutti frutti” is a word for word translation.
In Italian, however, to express the same concept, you should say and write “tutti i frutti”, adding the article “i”.
Yet an Italian would say, more commonly, “tutta la frutta” 🙂

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